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"Nel ricordo di Alessandro Risolo"

Luca Bassani, forse Tito aveva già capito tutto

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Luca Bassani Antivari, patron di Wally. Be’, se le parole fossero carte da gioco, sarebbe divertente calare due assi, così, alla garibaldina. Con un pezzo di cognome ha mandato al tappeto la famosa locuzione latina nomen omen, mentre con il nome dell’azienda ha sfidato le sacre scritture del marketing. Capiamoci: Antivari per uno che ha inventato la «barca che non c’era» non è proprio robetta, come del resto non è un dettaglio realizzare che la traduzione italiana di Wally sia nientepopodimeno che idiota, cretino, sciocco…
Fa ridere? Sì. Ma si sa, ridere è una cosa seria. E poi, in barba al politicamente corretto, diciamola tutta: Bassani può permettersi questo e altro. Per due motivi (almeno secondo chi scrive). Il primo: è nato benissimo, in un contesto familiare che gli ha fornito tutti gli strumenti per mordere la vita. Non ne fa mistero: «Mi ritengo un uomo molto fortunato» ripeterà più volte nel corso della chiacchierata con Gente di Mare 2.0. Il secondo: non ha mai contemplato l’idea di percorrere strade già battute da altri, di omologarsi al pensiero comune in nome del dio profitto. Come sempre, anche in questo caso, parlano i fatti, quindi le barche. Sono sempre state diverse, rivoluzionarie in tutto, nei colori, nei materiali, nei layout. Già al debutto, parliamo dei primi Anni ’90, allergiche ai diktat dell’architettura navale e dello yacht design dell’epoca, tanto da essere guardate dal mercato talvolta perfino con circospezione, salvo poi diventare fonte di ispirazione per tutto il settore nautico. A pensarci, viene in mente quella celebre frase di sir Winston Churchill «La storia sarà gentile con me dato che intendo scriverla». 

Bassani, come è cominciato tutto?
Con un bacio. Dei miei genitori. Il primo se lo sono dato a Portofino, dove poi hanno comprato casa. E dove io per molti anni ho trascorso le mie vacanze estive. Che cosa poteva fare un ragazzino a Portofino allora, oltre a tirare due calci al pallone in piazzetta con gli amici?
Dica
Imparare dai locali la cultura marinara. Quindi remare correttamente su una lancetta, pescare con una canna, calare le reti, i palamiti… L’amore per il mare è nato così.
E per la vela?
A 12 anni. Mio padre, per la verità, mi aveva già regalato una specie di Optimist, ma la vera differenza l’ha fatta Tito, un signore sulla quarantina che si occupava di una delle due barche di famiglia, quella a vela appunto, uno Stevens di 37 piedi. Un giorno mi disse: “Luca, domani usciamo, tu ed io e basta”.
E?
Uscimmo. Appena lasciato il porto, Tito mi passò il timone. Ricordo che c’era un bel maestralino. A un certo punto scese a controllare la situazione. Ebbene, risalì dopo due ore e mezzo. Si era addormentato. Si complimentò, dicendomi che ero andato bene perché non lo avevo svegliato con poggiate e orzate improvvise. Aggiunse, con mia grande soddisfazione, che saremmo usciti anche il giorno dopo.
Scusi, ma in tutto questo tempo, per quanto avesse già qualche nozione di vela, non ha mai avuto paura? E soprattutto, non si è chiesto che fine avesse fatto Tito?
No. Nessuna paura, nessuna domanda. A 12 anni se timoni da solo per due ore e mezzo o ti spari o ti diverti. Io mi sono divertito tantissimo. Infatti da quella volta Tito ed io siamo usciti ogni giorno, per tutta l’estate. È stato indiscutibilmente il mio grande maestro.
Onore a Tito allora e anche a lei, al suo coraggio. In mare ne occorre parecchio. A proposito, se l’è mai vista davvero brutta? 
No. O meglio, con Tito ho vissuto parecchie avventure al limite, compresa quella di restare senza nafta in mezzo al mare nel pieno della notte, ma devo ammettere di non aver mai provato particolari timori. Ricordo in particolare un episodio del 1977. I portofinesi si erano costruiti un barchino di 8 metri disegnato da Doug Peterson per partecipare a una regata, Porto Cervo – Lavezzi e ritorno. Mi hanno voluto come timoniere. C’era una maestralata pazzesca, con onde di 6,7 metri, non frangenti, ma lunghe. Della nostra classe si sono ritirati tutti. Siamo arrivati soltanto noi e il grande Giovanni Sicola.
Dai suoi racconti emerge chiaramente la centralità di Portofino. Romanzando, si potrebbe ipotizzare che lei sia stato benedetto dalle sue acque.
E dalla visione di mio padre. Mi spiego. Io e mio fratello da adulti saremmo entrati nell’azienda di famiglia, la BTicino. Bene. Di solito che cosa succede? Che due fratelli per quanto possano volersi bene, vivono esperienze diverse, frequentano amicizie diverse, conducono studi diversi, e poi un giorno all’improvviso si ritrovano nello stesso ufficio, sapendo poco l’uno dell’altro. Ecco, mio padre aveva compreso che l’esercizio pervicace di farci regatare insieme in gioventù, ci avrebbe permesso di conoscerci
profondamente, di prepararci in modo sano alla gestione di un vero team, di comprendere meglio chi fosse davvero tagliato per un ruolo piuttosto che per un altro. Di prendere, in altre parole, le famose misure. Naturalmente, la vela, oltre a essere stata una palestra di vita, mi ha regalato talmente tante emozioni da spingermi, quando ne ho avuto il tempo e la possibilità, a farne un mestiere.
Era il 1989, giusto?
Sì, avevamo da poco venduto la BTicino. All’epoca io avevo già girato il mondo e conosciuto il
gotha internazionale della vela. Avevo tutto quello che mi serviva per lanciare sul mercato una barca diversa, fuori dagli schemi. Che soprattutto non fosse soltanto veloce, ma anche comoda. Bella da guardare, che piacesse alle donne, solitamente attratte dalle imbarcazioni a motore.
Sembra che ci sia riuscito piuttosto bene.
Mio padre mi ha insegnato che
il successo di un marchio lo fa il prodotto. A sua volta il prodotto deve contemplare tre costanti: innovazione, qualità e servizio post vendita. Credo sia una sintesi di politica industriale ineccepibile. Wally è tutto questo.
D’accordo, però lei stesso ha più volte dichiarato che il debutto sul mercato, in particolare della divisione a motore, non è stato esattamente dei migliori…
Con la vela ormai eravamo fortissimi. Io però volevo realizzare qualcosa di unico anche a motore, ma ho commesso un errore imperdonabile. A bordo del primo wallypower118 sono saliti arabi, perfino Roman Abramovič e per quanto fosse esteticamente nuova e  velocissima, non la volle nessuno. Ricordo addirittura la telefonata di un pezzo grosso della nautica che si disse tanto dispiaciuto poiché aveva appreso che la barca era andata a fuoco. Ma quali fiamme? La barca era intonsa e al sicuro. In pratica, la davano già per morta. La verità? Avevo tutti contro perché stavo scardinando le regole del mercato con un prodotto mai visto prima.
Sì, ma torniamo all’errore.
Certo, l’unico vero motivo per cui wallypower118 non ha avuto successo. La discesa sottocoperta era una sola per equipaggio, armatore e ospiti. Da velista anche un po’ spartano per me era un fatto assolutamente normale. Per chi compra barche a motore, invece, questa soluzione è inaccettabile. La privacy prima di tutto. Capito questo, siamo ripartiti, senza mai tradire il Dna di Wally, che resta nel panorama dello yachting internazionale qualcosa a sé che non ha eguali.

Usciamo per un attimo dall’acqua, cioè dalla sua comfort zone. Un uomo come lei che ha avuto tutto, compresa la possibilità di trasformare una passione in mestiere, si sente arrivato?
Oggi a 67 anni sono un uomo sereno, tranquillo. Fortunato. Un uomo che ha imparato a gestire la collera. Una volta, per esempio, mi arrabbiavo molto di più.
È anche un uomo di fede?
Sì, credo in Dio.
Dio si trova più facilmente nel mare o sulla terra?
Direi che si trova nella natura in generale. Nessun altro, se non Lui, può aver fatto qualcosa di così perfetto.
Anche nella sua vita c’è parecchia bellezza. Qualcuno direbbe lusso. Che cos’è per lei il lusso?
Il lusso non ha nulla a che fare con la materia. È qualcosa di molto più alto. Per me è avere attorno persone fidate che ti aiutano a gioire al meglio delle tue passioni. Il lusso è per definizione qualcosa di esclusivo e l’esclusività risiede nei rapporti umani, non nelle cose.
Un’ultima domanda. Prima di lasciarla ai suoi impegni, non posso non chiederle chi timonasse tra lei e suo fratello.
Io.

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