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"Nel ricordo di Alessandro Risolo"

Valerio Rivellini: «Sono un ragazzo fortunato»

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(di Olimpia De Casa)

Avete presente il “battibecco” dell’iconografia classica della graphic novel, quello in cui il diavoletto tentatore e l’angioletto con l’aureola si danno il cambio nel comparire con inviti opposti, a osare o a mantenere i piedi per terra, nella mente del protagonista combattuto tra i due fronti? Ecco, l’immagine più nota e ricorrente nella storia del romanzo a fumetti è anche quella che più spesso appare ai lati dell’ingegno del professionista Valerio Rivellini, ingegnere navale e yacht designer napoletano tra i più impegnati e apprezzati del momento. Classe 1978, con un passato da velista, istruttore e skipper, timona dal 2009 lo studio Valerio Rivellini Engineering & Design, che conta oggi sei professionisti animati dal desiderio di rendere possibile l’impossibile. È il motore propulsore di ogni progetto firmato Rivellini e, insieme, il percorso naturale di chi ha saputo tradurre le sue conoscenze e la sua passione per il mare in professionalità e tecnica. Con un occhio di riguardo alla cura dei dettagli e all’innovazione tecnologica. L’ingrediente segreto? «Rispondo con un rimando forse eclatante, ma che rende l’idea. Hai presente quelle persone con una doppia personalità? Da una parte lo spirito libero che pensa senza limiti e dall’altra l’ingegnere che dice “Ma che stai facendo? Dove vuoi arrivare?”. È esattamente così. Non ho mai creduto nel comune dire che l’architetto fa cose che non si possono realizzare, mentre l’ingegnere sì. In realtà il designer Valerio e l’ingegnere Valerio litigano spesso perché mi piace immaginare, sognare situazioni difficili da realizzare, progetti complicati e la vera sfida è riuscire a realizzarli, inventarti la soluzione “furba” che ti tira fuori dalle rogne. È forse questa la parte più stimolante del mio lavoro: conciliare il design, l’aspetto intigrante, divertente e piacevole, con la parte ingegneristica, quella che ti permette di non dover sbattere la testa contro il muro e di vincere la prova». Una consapevolezza che sottende una maturità d’approccio non scontata…

«CIÒ CHE CERCO DI TRASMETTERE AI RAGAZZI CHE LAVORANO CON ME È DI AVVICINARSI AL PROGETTO SENZA PENSARE IMMEDIATAMENTE ALLA PARTE INGEGNERISTICA perché se imposti in questa chiave il lavoro finisci spesso con l’affossare sul nascere l’idea, lo stile, la creatività. Nella prima fase vince, quindi, l’anima del designer, che viene lasciata libera di immaginare, rappresentare e creare, nella seconda quella dell’ingegnere, che affronta il progetto per renderlo concreto e realizzabile, cercando di mantenere intatta l’idea di base. Questa mia visione deriva anche dai miei trascorsi nella produzione e nel post vendita, contesti in cui tocchi con mano le difficoltà di chi deve realizzare quell’idea, di chi deve metterla in produzione. Il momento in cui ti arriva il progetto di un’architettura magari spinta e tu la devi trasformare in prodotto è quello in cui più spesso viene da chiedersi “Ma cosa avete partorito, ma dai… come pensate si possa realizzare…”. Aver vissuto in prima persona quella fase e quell’impegno mi consente di affrontare il lavoro di ideazione e progettazione avendo cura di mettermi dall’altra parte con consapevolezza, di calarmi nei panni di chi quell’opera dovrà realizzarla. Mi pongo il problema anche perchè, essendo un ingegnere abbastanza orgoglioso, non potrei mai immaginare di fare qualcosa di bello e avere qualcuno che replica “Ma cosa hai fatto? Questo non si può fare”. Sarebbe un affronto incredibile, non potrei sopportarlo».

 

Diverse, e non solo in termini numerici, le collaborazioni avviate negli anni da Valerio Rivellini con protagonisti, più o meno giovani, della cantieristica italiana: da Italmarine a Blu Emme Yachts sino a Gozzi Mimì. Realtà molto differenti tra loro, che afferiscono però tutte al mondo della produzione a motore. Visti i trascorsi “velici”, non sarebbe stato più facile e naturale dedicarsi alla progettazione di imbarcazioni a vela?

«QUELLO DELLA VELA È IL MONDO IN CUI È NATA E CRESCIUTA LA MIA PASSIONE PER IL MARE. HO INIZIATO DA BAMBINO E DA ALLORA NON HO PIÙ LASCIATO IL TIMONE, ottenendo soddisfazioni dapprima in classe Optimist e poi sui Laser, quindi istruttore e, a 19 anni, skipper. Qualche anno fa lanciai il concept di Rivale 78, uno yacht a vela di 24 metri con unico timone a ruota, come i velieri dell’Ottocento, in carbonio e senza razze, per non interrompere gli spazi del pozzetto, cuore della vita a bordo. Mogano e ottone lasciavano il posto al carbonio anche nella tuga con lucernari a vista. Un concept in cui coabitavano classico e moderno. La virata professionale verso la progettazione a motore è stata dettata in parte dal mercato, in parte dalle caratteristiche intrinseche delle unità. Nel motore c’è molto più di quanto ci possa essere nella vela: le linee di una barca a vela sono di base sempre più eleganti, pulite, senza troppe sovrastrutture. Dal punto di vista del design è una concezione che rimane molto semplice. Ho cercato, però, di avvicinare i due mondi quanto più possibile, portando la mia esperienza, la mia voglia di vivere il mare in barca a vela, anche nel motore. In quasi tutti i progetti il “dialogo” è piuttosto esplicito». È molto evidente nell’Evo V8, un concept rivoluzionario di 24 metri dal design interno minimalista e raffinato, in cui il professionista – scegliete voi se l’ingegnere, lo yacht designer o entrambi – dimostra ancora una volta di saper raggiungere il perfetto compromesso tra una grande creatività e un’agevole fattibilità realizzativa. «Il dettaglio che immediatamente rimanda alla vela è quello dei due timoni a ruota, molto imponenti, nel pozzetto. Ma anche la poppa slanciata, che si solleva dall’acqua, richiama i ketch, le golette, gli Sparkman & Stephens e, in genere, le barche a vela di un tempo. Così come la murata, molto alta e svasata, è tipica delle barche a vela che richiedono una superficie bagnata importante in bolina. Non ultimo, il concetto legato alla velocità. Per carità, sono uno sportivo, vado in moto d’acqua, faccio sci nautico, ma amo il mare anche alle bassissime velocità. Anzi, credo che il bello di una traversata sia proprio il piacere di godere del contatto con il mare. Cosa veramente possibile non dico a 6 nodi, come in barca a vela ho fatto in passato, ma a 18, massimo 20 nodi indubbiamente sì. Anche in questo il V8 è una barca che consente di assaporare quel modo di vivere l’esperienza a bordo. Non potendo pensare di scendere sino all’ “andamento lento” della vela, cosa abbastanza difficile da fare digerire a un armatore, ho puntato a quel compromesso che consentisse di non impiegare decine e decine di ore per arrivare a destinazione e insieme di godere del viaggio, magari leggendo un libro, facendo due chiacchiere o bevendo qualcosa in compagnia. Tutte cose che a 30/35 nodi non sono possibili. A quelle punte, per quanto insonorizzata, bella e ben fatta possa essere l’imbarcazione, non vedi l’ora di arrivare, di fermarti e di scendere».

ANCHE IN QUESTO CASO, IL BAGAGLIO DI ESPERIENZE PREGRESSE HA CONSENTITO A VALERIO RIVELLINI DI METTERSI “DALL’ALTRA PARTE”, di riflettere, senza tarpare le ali alla creatività, sulle emozioni che quell’armatore desiderava poter provare a bordo. «Nella vita precedente, quella in cui facevo lo skipper, ho macinato migliaia e migliaia di miglia a bordo dei nuovi modelli Beneteau e Jeanneau che portavo a Napoli dopo 2/3 giorni di navigazione in cui davvero apprezzavo il tempo trascorso a bordo. Con l’autopilota inserito potevo pescare, preparare pranzi e cene con la cucina basculante e a barca sbandata, dedicare tempo al mio benessere. Mediamente il diportista affronta 20/30 miglia per andare a fare il bagno, non di più: 18/20 nodi ti permettono di godere dell’evasione in mare a tutto tondo». Il tema delle contaminazioni tra mondi diversi contempla anche la tendenza, in voga ormai da qualche anno, di trasferire nel diporto soluzioni progettuali e stilistiche tipiche della produzione militare. Una moda fine a se stessa o, oltre al gusto corrente, c’è di più? «L’affidabilità e la robustezza delle imbarcazioni militari derivano dal loro utilizzo: sono mezzi, come quelli da lavoro, che devono operare ininterrottamente, anche in circostanze gravose. Qualora una pompa dell’acqua avesse un problema su una nave militare, mercantile o da trasporto passeggeri non è pensabile non avere pronto un piano B. Ecco perché hanno sempre o quasi sempre un doppio impianto di tutto. Su una barca da diporto di 15 metri, se ti si rompe un’autoclave, arrivi a terra, la compri e la sostituisci. Vero anche che la ridondanza degli impianti tipica dei mezzi militari suggerisce al progettista di unità da diporto alcune accortezze. Io, ad esempio, nella distinta base dei miei 13 metri, anziché prevedere un caricabatterie o un inverter considero sempre un caricabatterie e un combi, che ti funziona da inverter, ma all’occorrenza da secondo caricabatterie. Fondamentale è quindi pensare alla sicurezza in ogni ambito. Diversa è evidentemente l’attenzione posta al dettaglio estetico. A bordo di un mezzo da lavoro prevale la funzionalità: quando apri un portello non ti disturba vedere la cerniera lunga 60 cm avvitata con i perni e con i dadi a vista, mentre su una barca da diporto la realizziamo pantografata al compasso. Ecco, la cerniera pantografata al compasso sarà pure bella ma se pensi di utilizzarla intensivamente, come avviene in ambito militare, dopo un mese di aperture continue, quella porta non funzionerà più. Robustezza e soluzioni durature sono diktat che, adeguatamente rivisti, ha senso trasferire nel diporto. I disegni di prue, sovrastrutture e, non ultimo, la scelta dei colori, sono invece frutto di “travasi” dettati dalla tendenza».

ASSODATO CHE COL SENNO DI POI È TUTTO MOLTO PIÙ FACILE, SE VALERIO RIVELLINI POTESSE RIVEDERE OGGI I SUOI PROGETTI PIÙ LONTANI NEL TEMPO, FAREBBE SCELTE DIVERSE? «Ci sono più dettagli che forse cambierei, non uno in particolare. Quando rivedi le barche dopo 4/5 anni ti capita di dire “Forse questa cosa l’avrei dovuta fare così”. Però poi ci penso e dico “No, non è vero, perché lo sto dicendo oggi, a fronte di esigenze diverse, un mercato diverso, tendenze diverse”. È come quando osservi una bellissima opera architettonica che non è più contemporanea. È semplice dire “La farei diversa”, è cambiato tutto. Ma se immagini quella costruzione nel periodo in cui è stata realizzata la valorizzi tantissimo. Mi è capitato poco tempo fa di rivedere una barca piuttosto piccola, una delle prime che ho progettato, forse 15 anni fa, una vita fa insomma: “La cambierei in quasi tutto” mi sono immediatamente detto. Poi però mi sono fermato e l’ho paragonata alle barche della stessa epoca. Solo a quel punto ho compreso che era veramente lei, quella “giusta”. Chiaro, i miei progetti sono tutti abbastanza recenti, ma credo molto nel contestualizzare il design al momento, al luogo. Nel mio studio, che sto ultimando proprio in questi giorni, sarebbe stato facile mettere un bellissimo parquet, anche più economico e pratico, o un modernissimo pavimento in cemento o in resina. Invece, sollevando il legno esistente, ho trovato delle maioliche e della graniglia del 1800 e ho speso un patrimonio e un sacco di tempo per ripristinare quel pavimento, che mai potrà essere eguagliato. Probabilmente nessuno oggi lo vorrebbe in casa propria, ma se tu lo vedessi diresti che è bellissimo perché è di quell’epoca e, per quell’epoca, era meraviglioso».

CELEBRE, A QUESTO PROPOSITO, LA FRASE DI “RE GIORGIO”, ALIAS GIORGIO ARMANI, L’UOMO CHE HA CAMBIATO IL VOLTO DELLA MODA INTERNAZIONALE: “L’eleganza non è farsi notare, ma farsi ricordare”. Vale anche per un’imbarcazione? «Se l’obiettivo è farsi guardare, vesti una barca color oro o a pois e ottieni il risultato. Se invece realizzi una barca unica nel suo genere, che magari all’inizio fatica a essere capita o apprezzata proprio perché piena di contenuti e di significato, quella barca prima o poi emergerà, saprà farsi ricordare». Ci sono progetti che si identificano molto con lo stile, il gusto e le idee di chi li ha firmati. Ce ne sono alcuni che rimandano invece immediatamente al family feeling del cantiere che li ha commissionati e altri ancora, quelli più dirompenti, in cui più che la matita del progettista o l’identità del costruttore, emerge il tentativo di tracciare una nuova rotta, di intercettare nuovi target o di lanciare nuove mode…

«IO POSSO DIRE CHE SINO ADESSO SONO STATO MOLTO, MOLTO, MOLTO FORTUNATO. I progetti che mi hanno dato più visibilità sono quelli legati al cantiere Evo o a barche customizzate, one-off. Con Blu Emme Yachts mi sono permesso il lusso di scrivere su un foglio bianco perché non esisteva il cantiere, non esisteva il marchio, non esisteva nulla. Non ho avuto nessun condizionamento. Questo è stato uno dei motivi per i quali, soprattutto all’inizio, il prodotto si è distinto tanto dagli altri: l’Evo R4 era una barca che un cantiere con una produzione già affermata forse non avrebbe mai fatto, né immaginato. La fortuna di poterla concepire in autonomia è proseguita con l’R6 e addirittura con il 24 metri, che è nato da un concept e si è trasformato in realtà, essendo stato il mio lavoro apprezzato da un armatore che già conosceva il cantiere. Quando si lavora con marchi già strutturati queste occasioni sono più rare, è necessariamente più difficile poter affermare le proprie idee, il proprio stile o la propria visione. Con Gozzi Mimì, che è un costruttore storico, non ti puoi permettere di concepire un gozzo ipertecnologico perché altrimenti stravolgi l’identità del cantiere, vai completamente fuori tema, distruggi una realtà a cui levi anni e anni di storia. Anche in questo caso, però, a parte il vincolo di “indirizzo”, ho avuto modo di esprimermi senza grossi limiti. Ma, mi rendo conto, è una fortuna». Come si riesce a dare un imprinting moderno a un’imbarcazione molto classica, come il gozzo sorrentino? «Oggi, soprattutto su unità di 8-12 metri, il desiderio è di vivere gli spazi all’aperto. Abbiamo vissuto per anni con barche con dinette enormi, che dopo dieci anni di navigazione, avevano però i divani sottocoperta intonsi. È cambiato radicalmente l’utilizzo. Ho cercato di portare questo “molto più spazio fuori” anche sui gozzi, che stanno iniziando a diventare walkaround. Non è facile prendere un oggetto storico, dislocante, a ponte piano, con il cuscinone a righe, e trasformarlo in un gozzo walkaround. Intervieni quindi con linee morbide, materiali, colori, essenze, che ti ricordano i paioli dei Baglietto e dei Picchiotti di 40 anni fa, e ti muovi con estrema precisione come quando affronti i paletti di una pista da slalom. Sai che se vai lungo hai perso… ».

SI DICE CHE I SOGNI SIANO DESIDERI… QUALI I SOGNI PIÙ RICORRENTI DI VALERIO RIVELLINI? «Quello di continuare ad andare per mare, quello di girarmi più e più volte per dire quella l’ho fatta io, quella l’ho fatta io, quella l’ho fatta io: dalla barca ancora più piccola di 7 metri sino a oltre 70 metri. Vedere per mare tutte queste imbarcazioni così diverse e potermi riconoscere in loro. Intanto, proprio perché sono fortunato, sogno ad occhi aperti, lavorando nel mio studio, che è lettaralmente sull’acqua. Sto ammirando Capri, il Golfo, la prua di nave Patrizia 1956 che mi guarda. Ho davanti agli occhi un orizzonte di una bellezza imbarazzante».

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