(di Chiara Risolo) Arrivo all’appuntamento in orario. Fisso incredula il civico. Oltre quella porta dimenticata da Dio, simil cessata attività dai tempi della Lira, non può esserci bellezza. Riguardo il mio appunto. L’indirizzo è corretto. Sono davanti allo studio di un pittore. Busso. Apre nella penombra un signore. Mi fa accomodare sbagliando in sequenza il mio nome almeno quattro volte. Poco importa. Davanti a me, decine e decine di tele (meravigliose) appoggiate alle pareti. Sopra di me, volte in pietra del Cinquecento. Colori ovunque, stracci inamidati da tempera. Pennelli, alcuni mummificati, altri ancora freschi di creatività. E poi lui: un metro e 65 forse, testa bianca nemica del pettine, plaid (sì, un plaid) attorno alla vita. Ai piedi, pesantissimi scarponcini da trekking.
“Benvenuta nella mia stanza dei giochi”, mi dice mentre cerca di ritagliare da quel sublime casino un posto degno per due chiacchiere. “Sono Raffaele De Rosa, anche se in realtà io non esisto. Vivo soltanto nel passato e nel futuro. Lei mi vede ma io non sono qui”.
Andiamo bene. Faccio appello alle mie buone maniere e alle scarse conoscenze in materia psicologica per entrare in sintonia con un “grosso punto di domanda” che sa di presa per il derrière. Scavallati i primi minuti di imbarazzo e scetticismo, mi accomodo su qualcosa di poco stabile e regolo le frequenze. Prende forma una narrazione che ha in sé l’incanto di una favola, ma anche spigolature che pungono gli occhi. Una narrazione che, al termine, rende razionalmente accettabile, e onesta, la boutade “non esisto”.
Una narrazione che passa anzitempo dal corpo. Raffaele De Rosa parla con i piedi. Prima di arrivare al dunque poggia soltanto i talloni: puntellati al suolo come se la memoria abitasse al centro della terra. E da lì dovesse zampillare. Parla con le mani. Le tiene unite, come fanno due amanti clandestini. L’una cerca l’altra, salvo spalancarsi non appena il pittore raggiunge il suo obiettivo: essere compreso.
Il contorno (contorno si fa per dire) aiuta a capire. Alle pareti poggiano alcuni dei suoi lavori. Confesso di non essere un’esperta d’arte, ma la sensazione è amena: sembra di essere dentro un grande libro di favole, dove ogni singolo personaggio ritratto ha vita propria. Esce dalla tela e anima lo spazio, rendendolo magico. Ecco perché il suo studio è una stanza dei giochi. Un luogo che solletica la parte più sana, impavida e sincera di un adulto: il bambino che c’è in lui.
De Rosa è esattamente come i personaggi dei suoi quadri. Ha un pensiero diretto, paradossalmente semplice e lineare nella sua quasi folcloristica complessità. Un pensiero che ha la stessa purezza di un bambino quando offre “a un grande” una tazza di caffè senza caffè, certo che quello sarà il migliore che egli possa bere in tutta la sua vita. De Rosa offre favole su un vassoio che si chiama tela. Il suo pennello crea alchimie, bellezza e stupore. Conduce in un mondo fantastico.
Nato a Podenzana, nella provincia di Massa-Carrara, il 19 agosto del 1940, trascorre gran parte della sua infanzia e adolescenza con i nonni materni. Amorevoli, benedetti, semplici come il pane, ma anche necessariamente figli di un’epoca in cui si fa soltanto ciò che si deve e basta in nome della sopravvivenza, senza guizzi e colpi di testa. Ecco allora la severità con cui De Rosa viene tirato su. Cresce a riso e bacchettate. Vietato guardarsi allo specchio: “Mi sono visto per la prima volta a 10 anni. Per quel che ne sapevo potevo anche essere una mucca“, dice. A tavola ha uno spazio ben definito entro il quale muoversi, se lo oltrepassa sono guai. Insopportabile poi il rumore degli zoccoli ai suoi piedi, presto messi a tacere dal nonno con pezzi di copertone rimediati da una qualche bicicletta abbandonata. Troppo gracile per iniziare gli studi a sei anni. De Rosa termina le scuole elementari quando ne ha 13.
“Fino alla terza andò tutto bene. Ero bravo. Un giorno la maestra mi mise in competizione con un compagno per una gara di matematica. Vinse lui. Da quel momento decisi che avrei fatto soltanto il giullare. Smisi di impegnarmi, mi bocciarono più volte”, racconta.
E ancora. L’obbligo di suonare il violino: quattro ore tutti i santi pomeriggi con il mento appeso a un pezzo di legno. L’obbligo di lucidare pentole, pavimenti, di lavare i panni. E poi una piccola lavagna accanto alla stufa. Una manciata di centimetri di libertà. De Rosa disegna tutto quello che la sua mente di bambino gli suggerisce, navi, eroi, cavalieri… Non ha nessuna informazione, nessuna nozione. Eppure disegna. Il tratto inconsapevole è la porta di ingresso a un mondo che finalmente gli piace, che trascende la realtà. Che non è presente. È ricordo, dunque passato. È speranza, dunque futuro.
Questa cifra stilistica lo accompagna negli anni a venire. Ancora oggi. Ecco perché Raffaele De Rosa non esiste. Esiste la sua arte che proietta, affamata, nel futuro oppure scava, ansiosa, nel passato. Dipinge per incontrare se stesso in luoghi che esistono soltanto nella mente.
Parte del suo successo lo deve a una donna. Lea. La suocera. La prima persona che gli ha concesso, non ancora ventenne, di dedicarsi a ciò che voleva davvero. “Piantai un cavalletto in casa sua e da lì fui libero”. Libero di avere 10 anni per sempre. In che senso? “Io ho dieci anni, se ne avessi anche solo 11 non potrei dipingere questi quadri, farei un punto su una tela bianca e mi affiderei a qualche scaltro mercante. Lavorerei sulla quantità e non sulla fantasia che di per sé non ha confini spazio-temporali”.
Siamo quasi ai saluti, un aereo lo deve portare a Milito per una mostra. Dalla lavagna accanto alla stufa dei nonni, de Rosa ne ha fatta parecchia di strada. Tuttavia a Milito non ci vorrebbe proprio andare. “Io sono inutile. I protagonisti sono i dipinti”. Una stretta di mano ci congeda l’uno dall’altra. Accompagnandomi alla porta (dimenticata da Dio) sbaglia in sequenza il mio nome almeno quattro volte. Non importa. Esco con il dubbio di non esistere. Caterina, Clara, Silvia, Rosita (mi chiama così)… chissà chi sono. O non sono.
Mi chiamo Raffaele De Rosa e per fortuna non esisto
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