Emergenza Salento
"Nel ricordo di Alessandro Risolo"

Bernardo Zuccon, Paola e la sera dei miracoli

Pubblicato il:

Condividi:

(Bernardo Zuccon, ritratto in bianco e nero. Credits Giovanni Malgarini)

Benché il calendario dica 40, è difficile dargli un’età. La barba rivela saggezza. Il sorriso, smagliante e spalancato, evoca freschezza. Si racconta con la mimica e il travolgente entusiasmo di chi vuole mangiarsi a morsi il mondo, salvo concedersi qua e là pause di riflessione, non senza indietreggiare con la schiena sulla poltrona della sua scrivania.
Bernardo Zuccon, classe 1982, figlio di Gianni e Paola, fratello di Martina, professione architetto, è una fotografia in bianco e nero. Proprio come quelle che ama scattare «perché» dice «sono reali, mostrano ciò che è». Bernardo si mostra per ciò che è. La sensazione che non abbia bisogno di ricorrere “al colore” per arrivare dritto a chi gli sta di fronte è nettissima. Niente orpelli, alchimie, virtuosismi barocchi. Soltanto il bianco e il nero. Che in lui, con la maturità più che raggiunta, e l’epifania di una “benedetta” ragazza, oggi dialogano che è una meraviglia. Da piccino, sentite un po’, voleva fare il den-ti-sta. Ambizione alquanto atipica per un bimbo.

Perché non l’astronauta, il pompiere…?
Sono stato, e lo sono tuttora, asmatico. Mamma mi portava spesso dal medico. Ho fatto moltissime iniezioni, uno stress pazzesco. Al contrario, non avendo mai avuto particolari problemi ai denti, percepivo lo studio dentistico come un luogo di pace in cui qualcuno si prendeva cura di me senza procurarmi dolore. Ricordo che mi piacevano l’odore e la pulizia, i colori tenui degli arredi e la dottoressa, una signora mora, gentile, affabile.
Poi si è acceso il sacro fuoco dell’architettura. Quando con esattezza?
Per la verità la mia scelta non si lega a un momento particolare. Non dipende nemmeno dal fatto che io sia figlio di architetti. O meglio, i miei genitori hanno giocato un ruolo fondamentale, ma che non ha nulla a che fare con il classico iter successorio preconfezionato.
Cioè?
Passo indietro. Martina ed io abbiamo avuto una grande fortuna. Abbiamo viaggiato tanto con i nostri genitori. Sin da piccoli, in maniera del tutto informale, senza imposizioni, mamma e papà ci hanno messo in contatto con spazi, luoghi, culture. E con l’architettura. Ricordo, tra gli altri, un viaggio a Chicago. Per strada loro avevano sempre lo sguardo rivolto verso l’alto a contemplare quei maestosi grattacieli. Si emozionavano. Be’, senza rendermene conto io facevo la stessa cosa. Guardavo con loro lassù. Iniziavo a capire che cosa fosse bello e che cosa no. Devo molto a queste due persone. Grazie a loro ho maturato precocemente una coscienza architettonica critica. Che, per esempio, mi ha portato a rifiutare il concetto di gusto personale.
Osservazione poco democratica. Tranchant. Spieghi meglio.
Per valutare un oggetto, qualunque esso sia, bisogna tenere conto di parametri precisi. Per sintetizzare potrei citare banalmente il famoso, quanto imprescindibile, rapporto forma-funzione. Queste due parole devono dialogare in armonia. Prendiamo le imbarcazioni. Ho visto yacht bellissimi ma impossibili perché chi li ha progettati ha anteposto il dato estetico a quello funzionale. Viceversa, ho visto barche con estremizzazioni funzionali che hanno ammazzato il senso estetico. Più in generale, rifuggo tutto ciò che è puro esercizio fine a se stesso.
Non sa quanto mi piacerebbe chiederle di fare nomi e cognomi, ma sarebbe indelicato e poi sono certa che passerebbe mano.
Ovvio. Però posso dire che l’attitudine a progettare barche bellissime, da esibire punto, è dannoso per la nostra categoria.
D’accordo. A volte  la “colpa” è degli armatori. Chiedono soluzioni che sfidano le leggi della fisica, motivate da capricci, forse dalla consapevolezza di avere una capacità di spesa illimitata che consente loro di desiderare l’inimmaginabile.
Vero, ma il cliente può essere educato, preso per mano e portato a comprendere perché sia migliore una scelta di un’altra. Per me è una crociata. Non è un caso che io pretenda di esserci sempre alla presentazione di un mio progetto. Anzi, sono io stesso a illustrarlo, perché sono in grado di dimostrare che dietro quello studio c’è verità. A Monaco, in occasione dell’ultimo boat show, ho avuto un incontro di lavoro importante. Non scenderò nei dettagli, ma confesso di aver fatto un passo indietro. Ho anteposto l’etica professionale al guadagno. Qualche giorno dopo mi è arrivato un messaggio sul telefono. Era mio padre. “Tua madre sarebbe orgogliosa di te”.
Paola.
Eccola. È sempre con me. Qui, sulla mia scrivania in questa bellissima foto che la ritrae. Ed è anche qui sul mio smartphone. Stessa immagine, ma in bianco e nero. (Bernardo lo racconta girando la cornice verso chi scrive, così come lo schermo del telefono. Sono gesti di amore disarmante, carichi di bellezza. Restituiscono all’immagine, quindi alla forma, la sua funzione, quindi l’immortalità. E tutto si fa ancora più chiaro).
Risponda soltanto se ne ha voglia: il dolore ha cambiato il suo modo di lavorare?
Mi ha fatto capire quanto io tenga a tutto questo. Da quel 2017 lavoro per rendere fiera mia madre.
Le capita di parlarle?
Ogni giorno. A volte le chiedo se sto facendo la cosa giusta. Magari, prima o poi, avrò un segnale, una risposta.
È un uomo sereno?
Sì.
Non potrebbe già essere questa una risposta?
Non ci avevo mai pensato (sorride). Potrebbe.
Mamma, se non sbaglio, le ha trasmesso anche la passione per la fotografia.
È stata lei a mettermi in mano la prima Leica, dicendomi “la foto non la fa la macchina, la fanno gli occhi”. Aveva ragione.

Occhi che devono essere in asse con testa e cuore, suggeriva Cartier Bresson.
È tutta una questione di sensibilità. La tecnica viene in un secondo momento. Bresson è uno dei fotografi che amo di più in assoluto. Aveva una straordinaria capacità di cogliere l’attimo. Pensi soltanto all’uomo che corre e salta la pozzanghera… La distanza tra il suo piede e l’acqua è pura poesia.
Senza contare l’eleganza del bianco e nero.
Chi scatta in bianco e nero affida esclusivamente alla luce la capacità di trasmettere forti emozioni. Pur riconoscendo la grandezza di Steve McCurry, mi domando: “Se alla celeberrima ragazza afghana togliessi il colore degli occhi, lo scatto avrebbe la stessa profondità?”.
Luce. Qual è la sua?
La mia parte fanciullesca. Che mi consente di stupirmi, di provare meraviglia. Sa perché amo la parola progetto? Perché ne amo il significato “gettarsi oltre”, azione che implica la voglia di provarsi ogni volta in qualcosa di nuovo. Di andare oltre. E di stupirsi.
Bene. A questo punto la domanda è d’uopo. Ha progettato case, negozi, uffici, barche, complementi d’arredo…, una maniglia! Che cosa manca?
Un paio di occhiali. Sì, un paio di occhiali. Forse perché invidio chi li indossa.

E se parliamo di barche?
Martina ed io vogliamo progettare, e costruire, una barca per tutti, una barca possibile. Che sia piccola, bella, intelligente e funzionale. Non mi fraintenda, ma questo lo voglio dire… Al Salone di Genova ho visto intere famiglie rapite dalla bellezza di yacht oggettivamente molto costosi. Ho visto padri di famiglia impegnati in trattative all’ultimo sangue, leggi euro, per un 6 metri.
Lei che rapporto ha con il denaro?
Non lavoro per soldi. Tutto è mosso unicamente da passione. Mi creda se le dico che la mia più grande paura è quella di perdere la passione. Mi spaventa più della morte.
Le credo. Però, prima di salutarla, vorrei chiederle che musica ascolta.
Lucio Dalla. Capiamoci, esiste la musica e poi esiste Lucio Dalla.
Come darle torto. Quindi? Se è una femmina, si chiamerà?
Futura. Pensi che il mio cagnolino si chiamava Caruso.
E se dico La sera dei miracoli?
Un capolavoro. La canzone più bella del mondo.
A pensarci, potrebbe essere uno scatto in bianco e nero. Ogni verso, un fotogramma. Come “E in mezzo a questo mare, cercherò di scoprire quale stella sei”.
Già.

 

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui